Riunione annuale 2013
Open. Dalla condivisione dei risultati ad una ricerca trasparente per il bene comune
La trasparenza di metodi e risultati è l’obiettivo della campagna Open Data del BMJ e della petizione AllTrials, nata da un’idea di Ben Goldacre. L’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane appoggia questa petizione e invita tutti a firmarla.
Il ruolo delle “persone” nel SSN, da “consumatori” di salute a donne e uomini con cui medici e infermieri devono condividere evidenze e incertezze, decisioni e “vigili attese”. E’ un tema da tempo al centro dell’attenzione di Sir Iain Chalmers che, con il suo progetto Testing Treatments Interactive, continua costantemente a ricordare l’importanza di una riscrittura dell’agenda della ricerca sulla base della domanda di salute dei cittadini.
Lo sharing quale caratteristica originale del web, tra “wisdom of the crowd” e valore della spontanea condivisione in Rete. I rischi (e le opportunità) dell’accessibilità/utilizzo di dati sensibili come quelli sanitari, straordinaria occasione per la ricerca di sanità pubblica ma anche potenziale preda di un’industria sempre più interessata all’interlocuzione diretta con l’utente.
La condivisione della produzione dei contenuti “informativi” come possibile soluzione al problema della “comprensibilità/readability” degli output della ricerca – Dalla “comunicazione” alla condivisione dei risultati della ricerca.
Alla Riunione dell’Associazione si è parlato di tante cose che rimandano alla visibilità/invisibilità:
- state descritte da Paolo Bruzzi le trappole nascoste nei disegni delle sperimentazioni cliniche (utili a dimostrare l’efficacia degli interventi studiati o, comunque, ad amplificarne la portata);
- si è ascoltato, da Francesco Perrone, delle distorsioni della ricerca clinica che – in oncologia – aggira l’esigenza di approfondire i meccanismi che determinano l’efficacia dei diversi trattamenti per privilegiare le terapie “innovative”;
- si è ragionato, con Giuseppe Traversa, della complessità insita nella pur necessaria esigenza di condividere metodi e risultati dei trial o dei registri di malattia;
- sono state condivise, da Tom Jefferson, le difficoltà di condurre revisioni esaurienti della letteratura e della documentazione per gli ostacoli costantemente frapposti dall’industria;
- non ci si è trattenuti, come nel caso di David Healy, dal comunicare i dubbi di ricercatori che si scontrano con la “corruzione” del randomised controlled trial che – da gold standard della ricerca – sembra abbia perso di valore, così manipolato nel disegno e nella presentazione dei risultati.
Alla Riunione di Napoli, però, abbiamo ascoltato anche altre voci:
- Sir Iain Chalmers, che ci ha spiegato quanto sia importante credere sempre di poter cambiare le cose, a patto – però – di saper riflettere e rinnovare il nostro modo di agire: lui, dopo Napoli, parlerà soltanto a bambini e adolescenti, spiegando le ragioni della buona ricerca, trasparente e utile alle persone sane e a quelle malate;
- Fiona Godlee, che ci ha fatto capire che anche chi dirige una delle più apprezzate e importanti riviste del mondo (il BMJ) può essere convinta della necessità dell’accesso libero ai dati della ricerca, della peer review trasparente e aperta ai cittadini, dell’open access ai contenuti di ricerca pubblicati sulle riviste scientifiche;
- Alberto Tozzi, che ci ha mostrato come le funzionalità del social web possano permettere sin d’ora un maggiore e più intelligente coinvolgimento dei cittadini nella determinazione dell’agenda della ricerca e nella disseminazione dei suoi risultati;
- Peter Doshi, che – con il sorriso contagioso di californiano figlio di un papà bengalese e di una mamma ebrea tedesca, sposato con una giovane giapponese – ci ha dimostrato che togliere il velo alla ricerca invisibile o abbandonata è possibile: basta volerlo, impegnandosi per dare una vita nuova ai dati che altri ricercatori hanno preferito (o dovuto) tenere nel cassetto…
I workshop
Il giorno precedente la Riunione annuale, si svolgeranno quattro workshop dedicati ad altrettanti temi di carattere prevalentemente metodologico. Due di questi sono organizzati dalla Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane uno in collaborazione con la Associazione Culturale Pediatri, l’altro con Libera, Coripe e Avviso Pubblico, tre organizzazioni che da diversi mesi lavorano intensamente al tema della Legalità e Illegalità in Sanità.
La partecipazione ai workshop – ciascuno della durata di circa 2 ore e mezza – prevede una quota di iscrizione di € 40,00.
La promozione della salute nei primi 1000 giorni di vita. Prove ed errori
Il workshop si propone di offrire una riflessione sui rapporti tra buone pratiche mediche in neonatologia, promozione della salute preconcezionale ed esiti nei neonati e nei bambini nei primi anni di vita. Verrà data una definizione operativa di “buone pratiche mediche”, indicando quali sono gli esiti di salute infantile rilevanti per la loro individuazione. Esamineremo poi l’impatto quantitativo della medicina basata sulle prove sulla pratica neonatologica e la possibilità di migliorare la salute neonatale/infantile attraverso la promozione della salute preconcezionale della donna e della coppia.
La nascita come accoglienza ed il sostegno integrato alle famiglie, soprattutto per quelle in condizioni difficili, è il secondo focus della giornata che si collega ai vettori di salute, quali la lettura ad alta voce e l’ascolto della musica, che sono proposti a fine mattinata.
Il workshop affronterà poi il tema della maggiore efficacia della comunicazione basata su un modello di empowerment che metta al centro del processo il genitore ed il bambino, e non basata su uno stile paternalistico di tipo direttivo. La campagna Genitori più, a carattere nazionale, si basa sulla in-formazione dei neogenitori per quanto riguarda 7 azioni di documentata efficacia per la salute del nascituro e del bambino. Per la promozione delle vaccinazioni si è utilizzata per gli operatori dei Servizi vaccinali e dei pediatri di libera scelta, la formazione blended al counselling sistemico e le criticità comunicative sono state oggetto di discussione e di riflessione a partenza da colloqui audio registrati dagli stessi partecipanti.
Presentazione di:
Paolo Siani, Presidente ACP, Napoli
Laura Reali, Pediatra di famiglia, ACP Roma
Buone pratiche di assistenza neonatale, promozione della salute riproduttiva e salute infantile.
Le “prove” messe alla prova. Sessione interattiva.
Carlo Corchia, Alessandra Lisi International Center on Birth Defects and Prematurity e Associazione Culturale Pediatri (ACP) Roma.
Luigi Gagliardi, Dipartimento Materno Infantile, UO di Pediatria e Neonatologia, Ospedale della Versilia,
Lido di Camaiore (LU).
L’intervento precoce su tutti i neonati: prove di efficacia
Speaker: Giuseppe Cirillo, Pediatra di Comunità, ACP Napoli
Più in là: il ruolo del counselling nella promozione alla salute. Sessione interattiva.
Michele Gangemi
Pediatra di famiglia e Counselor, ACP Verona
La lettura ad alta voce serve?
Speaker: Stefania Manetti, Pediatra di famiglia, ACP Napoli
L’ascolto della musica costruisce abilità cognitive?
Speaker: Maria Francesca Siracusano, Pediatra di Famiglia, ACP Messina
Conclusioni
Primi passi nella network meta-analisi
Per alcune patologie o condizioni il medico può scegliere tra più opzioni terapeutiche. Ipotizziamo di chiamare questi interventi A, B e C. In tali condizioni il quesito d’interesse per il paziente e per l’operatore sanitario potrebbe essere: “Tra A, B e C qual è l’intervento più efficace e con meno effetti collaterali?”. Per rispondere a tale domanda, negli ultimi anni è stato sviluppato un metodo che prende il nome di network meta-analisi (NMA). Questa metodologia statistica, da molti considerata l’evoluzione della meta-analisi tradizionale, combina i risultati dei vari studi che hanno in precedenza confrontato, ad esempio, A vs B, A vs C, e B vs C. Il metodo consente, sotto particolari condizioni, di capire quale intervento sia più ragionevole utilizzare.
L’obiettivo del workshop è di introdurre il razionale e le assunzioni alla base del metodo. Attraverso un’esercitazione pratica sarà introdotto il concetto di confronto diretto e indiretto. Saranno inoltre discussi i risultati prodotti da alcune NMA pubblicate nella letteratura scientifica. Ai partecipanti al workshop saranno inoltre forniti gli strumenti per interpretare le rappresentazioni grafiche dei network di studi.
Coordinatore:
Roberto D’Amico, Centro Cochrane Italiano, Dipartimento di Medicina Diagnostica, Clinica e di Sanità Pubblica, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.
Speakers:
Roberto D’Amico, Cinzia Del Giovane, Centro Cochrane Italiano, Dipartimento di Medicina Diagnostica, Clinica e di Sanità Pubblica, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Graziella Filippini, Istituto Carlo Besta di Milano
Facilitatori:
Paolo Chiodini, Officina Cochrane, Seconda Università degli Studi di Napoli
Target audience: Questo workshop si rivolge a tutti coloro che conoscono la metodologia delle revisioni sistematiche, che hanno sentito parlare di network meta-analisi, ne sono incuriositi e vorrebbero saperne di più. Livello di difficoltà: medio-basso.
Dalle evidenze alle decisione per il Sistema Sanitario Nazionale: il Progetto DECIDE
DECIDE è un progetto di ricerca finanziato dalla Commissione Europea il cui obiettivo è sviluppare e valutare strategie di comunicazione che favoriscano l’assunzione di decisioni basate su evidenze scientifiche.
Nel corso del workshop verrà presentato e discusso uno strumento di sintesi delle evidenze scientifiche, messo a punto partendo dal metodo GRADE, con l’obiettivo di aiutare policy maker e manager a prendere decisioni informate. Verrano utilizzati due esempi pratici di applicazione dello strumento ad una decisione di coverage e ad una di discoverage.
Questo workshop si rivolge a policy maker e manager, e ai loro staff, responsabili di decisioni che riguardano se e come introdurre o interrompere (o chiedere di introdurre/interrompere) la copertura economica di interventi, farmaci, test, dispositivi o servizi (coverage/dis-coverage).
Coordinatori:
Valeria Di Martino
Salvatore Panico
Speakers:
Marina Davoli, Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale del Lazio.
Salvatore Panico, Università Federico II di Napoli, Officina Cochrane Napoli.
Facilitatori:
Laura Amato, Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale del Lazio, Network Italiano Cochrane.
Valeria Di Martino, AORN dei Colli – Monaldi Cotugno CTO.
Elena Parmelli, Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale del Lazio, Network Italiano Cochrane.
Luciano Sagliocca, Agenzia Regionale di Sanità (ARSAN Campania).
Carlo Saitto, Azienda Sanitaria Locale Roma E.
Linda Utech, Azienda Sanitaria Locale Napoli 1.
Maria Rosaria Canzanella – Assessorato Sanità Regione Campania
Luisa Cappitelli – Assessorato Sanità Regione Campania
Corrado Rispoli – PO Ascalesi-ASL NA1
Illegalità e corruzione nel sistema sanitario: come affrontare il problema
Obiettivo del workshop è quello di porre in evidenza il tema della corruzione all’interno del sistema sanitario, mettendo in luce l’impatto che questa ha nell’ambito della ricerca ed evidenziando quanto questa possa poi pesare direttamente sui cittadini.
Partendo da casi pratici, il corso si propone iniziare un percorso per giungere alla definizione di strategie da mettere in campo nell’ambito della ricerca per prevenire la corruzione e le illegalità e aumentare la trasparenza del sistema.
Programma del workshop
Perché occuparsi di illegalità nel sistema sanitario
Speaker: Vittorio Demicheli
Il senso ed il vissuto quotidiano di legalità nella ASL Napoli 1
Speaker: Ciro Brancati
Un modello per identificare e valutare il peso delle illegalità nelle realtà sanitarie
Tutor: Massimo Brunetti, Vittorio Demicheli
Quali azioni e interventi è possibile mettere in campo?
Speaker: Massimo Brunetti
Sede dei workshop
Centro Ricerche Cardiologia
SUN Ospedale Monaldi
Azienda Ospedaliera dei Colli
Via Leonardo Bianchi, 1
80131 Napoli
Open. Il Comitato organizzatore
Le relazioni della riunione annuale 2013
Come i pazienti e il pubblico possono aiutare a ridurre gli sprechi nella ricerca
Un intervento denso di spunti significativi quello di Iain Chalmers, che riassume in poco più di 20 minuti il lavoro di una vita e che, di fatto, costituisce uno spartiacque. Sarà infatti il suo ultimo intervento pubblico rivolto ai professionisti sanitari, annuncia: dopo trent’anni dedicati a ribadire gli stessi concetti per “costruire” una ricerca clinica etica e partecipata, non è cambiato nulla. Si rivolgerà dunque, d’ora in poi, ad un pubblico diverso, quello degli studenti delle scuole secondarie, sperando di cambiare le cose alla radice e di imparare a sua volta qualcosa di nuovo.
Cosa ha portato Chalmers a questa decisione radicale? Quali e quanti sono gli sprechi nella ricerca che non si è riusciti sinora ad evitare? In un articolo pubblicato sul Lancet nel 2009, Chalmers e Paul Glasziou sono giunti alla conclusione che l’85% dell’investimento nella ricerca viene sprecato. La cifra è da capogiro: più di 85 miliardi di dollari all’anno. Da questa importante analisi sono derivati alcuni incoraggianti sviluppi e approfondimenti su come evitare gli sprechi, tra cui una serie di articoli appena pubblicati sul Lancet.
L’aspetto su cui Chalmers si è tuttavia concentrato nella sua relazione è quello degli sprechi relativi alla scelta dei temi su cui indirizzare la ricerca. Cita al riguardo un articolo di Tallon et al., pubblicato sul Lancet nel 2000, che dimostra in modo evidente lo scollamento esistente tra i trial effettuati e le priorità dei pazienti. I pazienti, sottolinea Chalmers, non vogliono che l’enfasi nelle ricerche sia posta sui farmaci, come è stato finora; a loro interessa di più che ci si concentri sugli aspetti educativi, organizzativi e psicologici, oltre che sui consigli relativi allo stile di vita. È quanto ha dimostrato anche il lavoro della James Lind Alliance, con la costruzione del suo database delle incertezze circa gli effetti dei trattamenti, per individuare quali fossero i dubbi più importanti di pazienti e medici ed indirizzare la ricerca in quella direzione. Un lavoro globale, trasparente e, per quanto possibile, democratico, basato su una partnership tra pazienti e clinici che ha anche lo scopo di definire le priorità nella ricerca.
Altro elemento importante, secondo Chalmers, è che non si guarda con sistematicità alle evidenze già rese disponibili dalla ricerca. Considerando il caso della nimodipina, ad esempio, elementi già disponibili da studi su modelli animali avrebbero sconsigliato l’avvio di trial, eppure questi dati sono stati esaminati solo dopo la conduzione di studi su circa 7500 pazienti che hanno dimostrato un effetto nocivo per la salute di questi farmaci, con enormi sprechi. Lo stesso vale per la somministrazione di corticosteroidi alle donne in caso di parto prematuro, per l’uso dell’acido tranexamico in caso di trasfusione e per un gran numero di altri studi i cui dati sono stati a lungo ignorati.
Questo aspetto è legato ad un altro problema rilevante: il 50% degli studi non viene pubblicato integralmente. Non importa da chi siano sovvenzionati, se siano di grandi o più modeste dimensioni, semplicemente non vengono pubblicati. E questa è una cosa oltraggiosa, ribadisce Chalmers. I pazienti vengono invitati a partecipare ai trial e poi i dati non vengono resi pubblici: questo significa tradire le loro aspettative. Se i pazienti e il pubblico devono partecipare al processo di riduzione degli sprechi e della protezione dei malati, devono perciò imparare a valutare criticamente le proposte di ricerca e i report. Invece, come sottolinea Ben Goldacre nel suo libro Bad science, “non ti viene insegnato nulla sull’interpretazione delle statistiche, sui rischi e sulle basi scientifiche di ciò che ti curerà o ti ucciderà”. E’ una lacuna culturale che diventa sempre più evidente (qui il blog di Ben Goldacre).
“Abbiamo cercato di fare qualcosa per colmare questo gap con il libro Come sapere se una cura funziona, che ha registrato due edizioni di successo e molte traduzioni”, sottolinea Chalmers, “ma poi abbiamo pensato: abbiamo bisogno di qualcosa di più degli scritti, delle parole, per illustrare adeguatamente questi importanti concetti. Da qui l’esperienza della versione interattiva di Testing treatments, disponibile in molte lingue”. È importante che il pubblico promuova la ricerca, ma è altrettanto importante che la conosca per potervi partecipare attivamente. Un nuovo trattamento, infatti, ha meno probabilità di essere migliore che peggiore di quello già esistente. Sapendolo, i pazienti possono decidere di non partecipare ad un trial clinico se alcune condizioni fondamentali non vengono rispettate: in particolare:
- il protocollo dello studio deve essere stato registrato e reso disponibile pubblicamente;
- deve fare riferimento a revisioni sistematiche di evidenze esistenti che giustificano il trial;
- il paziente deve ricevere assicurazione scritta che i risultati della ricerca verranno pubblicati.
Se non sussistono queste condizioni, il paziente deve rifiutarsi di partecipare allo studio.
Abbiamo una brillante guida, conclude Chalmers, quella di Alessandro Liberati e in particolare la testimonianza lasciataci in una delle ultime lettere al Lancet (il cosiddetto “Manifesto Liberati): “Ho avuto l’opportunità”, diceva, “di considerare da più di una prospettiva la mancata corrispondenza tra quello che fanno i ricercatori e quello di cui hanno bisogno i pazienti… Una componente essenziale di qualsiasi nuova strategia di governance dovrebbe essere quella di mettere insieme tutti gli stakeholder, a partire da un’analisi delle ricerche esistenti e di quelle in corso, prodotte indipendentemente dagli interessi consolidati”. Sono che parole non dobbiamo dimenticare.
Riferimenti bibliografici
Chalmers I, Glasziou P. Avoidable waste in the production and reporting of research evidence. Lancet 2009; 374:86-9.
Evans I, Thornton H, Chalmers I. Testing treatments. Traduzione italiana: Come sapere se una cura funziona. Una migliore ricerca per un’assistenza migliore. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2007.
Goldacre B. Bad science. London: Fourth Estate, 2008. Trad. It.: La cattiva scienza. Milano: Bruno Mondadori, 2009.
Goldacre B. Bad pharma. London: Fourth Estate, 2012. Trad. It.: Effetti collaterali. Milano: Mondadori, 2012.
Liberati A. Need to realign patient-oriented and commercial and academic research. Lancet 2011; 378:1777-8.
Research: increasing value, reducing waste (Series of 5 papers). Lancet 2014; January 8.
Tallon D, Chard J, Dieppe P. Relation between agendas of the research community and the research consumer. Lancet 2000; 355(9220):2037-40.
Resoconto a cura di Bianca Maria Sagone
Apertura e partecipazione: il medical publishing deve cambiare?
“Alessandro Liberati è stato una grande ispirazione per molti di noi”. Così Fiona Godlee, BMJ editor, ha voluto aprire la propria relazione alla Riunione annuale 2013 dell’Associazione Alessandro Liberati – Network italiano Cochrane. E nel parlare di “openness”, partecipazione e cambiamenti possibili ed opportuni, ha articolato la discussione in cinque punti ripercorrendo le tappe fondamentali – “open” – del medical publishing: open peer review, open access, open data, openness rispetto ai pazienti e openness rispetto al conflitto di interessi.
Il sistema di peer review attualmente è un sistema difettoso. Per migliorarlo può essere di grande aiuto una open peer review che permetta di aumentare l’affidabilità del sistema di revisione critica, aumentando anche la credibilità del lavoro dei referees. All’interno di questo sistema di open peer review, il BMJ inoltre esplicita i commenti dei revisori. Ulteriori margini di miglioramento del sistema possono derivare dalla revisione post pubblicazione e nella creazione di un dibattito successivo alla pubblicazione degli studi; di questo confronto, le riviste dovrebbero farsi promotrici e garanti dando spazio a lettere, risposte e commenti anche critici circa i lavori pubblicati. “Vogliamo essere responsabili anche dopo la pubblicazione e il BMJ ha ereditato da Richard Smith un ottimo sistema di risposte rapide”.
“Sono completamente a favore dell’open access”, dichiara Goodle introducendo la seconda tappa fondamentale, che ha rappresentato una novità molto importante per l’editoria scientifica. Molte riviste, tra cui il BMJ per gli articoli originali che presentano i risultati di studi e ricerche, hanno optato per l’open access, il metodo migliore di diffondere la conoscenza scientifica. Circa il rapporto tra open access e qualità della peer review, Goodle sottolinea, se ce ne fosse bisogno, che l’open access non implica affatto una peer review di bassa qualità; che ci può essere open access e tassi di accettazione molto bassi così come una peer review poco accurata da parte di riviste che permettono l’accesso ai soli abbonati.
Ben consapevoli della spinosa questione dei publication bias, gli open data possono rivelarsi una spinta importante per garantire l’evidenza in medicina. E’ un altro punto di grande importanza nel medical publishing odierno: la registrazione dei trial è già un traguardo molto positivo. Circa l’importanza degli open data per una ricerca efficace e trasparente, Godlee ripercorre – su tutte – tre storie note: Vioxx, Tamiflu e Reboxetina, casi in cui a monte vi sono la mancanza di trasparenza e la non accessibilità dei dati da parte dell’industria. Nel caso dello studio sul Vioxx si è trattato di dati nascosti relativamente ad effetti collaterali importanti, nonostante si fosse di fronte ad un farmaco molto buono; per la Reboxetina di una percentuale del 75% di dati non pubblicati, per cui la Germania decise coraggiosamente di non approvare il farmaco di fronte al rifiuto dell’industria di fornire tutti i dati; per il Tamiflu della decisione di autorizzare il farmaco fondata in realtà su dati insufficienti (in questo ultimo caso, a breve sarà pubblicata la revisione Cochrane). E’ molto importante la collaborazione delle riviste scientifiche che, come il BMJ, dovrebbero accettare solo lavori che rendono disponibili tutti i dati. Così come è fondamentale smuovere e coinvolgere l’opinione pubblica su questi temi.
In questa direzione va la grande iniziativa di AllTrials che, promuovendo la registrazione di tutti i trial e la pubblicazione di tutti i metodi e i risultati dei trial, accresce, tra l’altro, il senso di indignazione generale rispetto all’attuale situazione.
La quarta tappa “open” riguarda l’impegno per una reale partecipazione dei pazienti non solo in termini di inclusione nei trial ma anche di partecipazione al processo di pubblicazione degli studi. Le riviste devono – in questo senso – dare giusto spazio alle lettere e ai commenti dei pazienti relativi agli articoli pubblicati. Il BMJ introdurrà la patient peer review: un revisore, tra gli altri, sarà un paziente.
E infine il conflitto di interesse, che in medicina è talmente diffuso da rendere difficile trovare chi non ne abbia. Nonostante ciò, per garantire trasparenza e indipendenza bisognerebbe andare oltre la semplice dichiarazione di conflitti di interesse: chi li ha non dovrebbe scrivere. Parallelamente, l’impegno in questo senso sta nel dare visibilità a chi invece l’indipendenza la ha e la mantiene. Per far questo si devono agevolare in tutti i modi la ricerca e l’informazione indipendenti, privilegiare i trial indipendenti (e nel caso di trial di fase III devono essere tutti indipendenti) rendendo pubblici i dati sui pazienti. Le agenzie regolatorie dovrebbero richiedere almeno un trial indipendente prima di approvare e autorizzare al commercio medicinali o dispositivi. E la ricerca infine dovrebbe essere accessibile su database aperti e pubblici e non solo su riviste.
Resoconto a cura di Manuela Baroncini.
La ricerca mai svolta: chi decide l’agenda?
Due storie per raccontare la ricerca non fatta e individuare chi sia la vittima, chi il colpevole e se l’intera storia possa nuocere a uno o a molti pazienti: le ha proposte Francesco Perrone, responsabile della Struttura Complessa di Sperimentazioni Cliniche dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS – Fondazione Pascale di Napoli, in occasione della Riunione Annuale 2013 dell’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane.
La prima riguarda un campo di ricerca molto piccolo, quello del trattamento dell’epatocarcinoma con sorafenib e la pubblicazione nel 2008 e nel 2009 di due studi importanti, lo studio SHARP, che ha coinvolto una popolazione di pazienti occidentali (Lancet 2008;359:378-90) e un altro studio condotto su una popolazione di pazienti asiatici (Lancet Oncology 2009; 10: 25-34). Entrambi hanno dimostrato che sorafenib prolunga la sopravvivenza in questi pazienti, anche se con un vantaggio mediano piuttosto piccolo, inferiore ai tre mesi.Entrambi erano indirizzati verso pazienti con una buona funzionalità epatica espressa con lo score Child-Pugh A.
Solo pochissimi pazienti con scarsa funzionalità epatica (Child B) erano entrati in questi due studi (20 nel primo e 6 nel secondo studio). Questo particolare non è da trascurare perché sorafenib, che è considerato un farmaco ben tollerato, produce comunque alcuni effetti collaterali che possono diventare particolarmente severi e impegnativi in un paziente con scadente funzionalità epatica. Inoltre la sopravvivenza attesa nei pazienti con Child B è di 4 mesi e mezzo, per cui solo nella migliore delle ipotesi e cioè che sorafenib funzioni nei pazienti Child B tanto quanto nei pazienti Child A si può ipotizzare un vantaggio di due mesi (che inizia ad essere discutibile in quanto a dimensione del beneficio), ma in tutte le altre ipotesi ci si deve aspettare un vantaggio inferiore ai due mesi, che quindi è altamente discutibile.
Nonostante questo, sia l’Agenzia regolatoria europea sia la Food and Drug Administration hanno registrato il farmaco per l’uso nell’epatocarcinoma senza alcuna distinzione relativamente alla funzionalità epatica tra Child A e Child B. L’Agenzia italiana del farmaco ha invece scelto di non rimborsare il farmaco per il gruppo di pazienti con Child B: “scelta corretta ma sgradevole – sostiene Perrone perché avere un farmaco contro il cancro registrato ma non rimborsato non è mai una bella cosa”.
Qual è la vittima di tutta questa storia? Sicuramente la conoscenza: non si saprà probabilmente mai se sorafenib è efficace nei pazienti con Child B. Chi sono i responsabili? Sia l’azienda farmaceutica, che ha chiesto la registrazione del farmaco indipendentemente dalla funzionalità epatica del paziente, sia le Agenzie regolatorie, che hanno accettato e approvato il farmaco senza porre una limitazione. Queste decisioni possono ricadere negativamente sui pazienti? Sì, perché c’è un sottogruppo di pazienti con epatocarcinoma che potrebbe avere tossicità da questo trattamento senza che ci sia un’indicazione certa o neanche probabilistica sulla sua efficacia.
La seconda storia raccontata da Perrone riguarda invece un campo di ricerca molto più ampio, quello del trattamento adiuvante dei tumori della mammella ormonoresponsivi con inibitori delle aromatasi invece che con tamoxifene oppure dopo un paio di anni di tamoxifene. Gli inibitori delle aromatasi di terza generazione hanno fatto la loro comparsa all’inizio degli anni Novanta e il loro meccanismo di azione si basa esclusivamente sulla soppressione degli estrogeni circolanti grazie all’inibizione dell’attività dell’enzima aromatasi. Dal 2003, nel corso di 7-8 anni, sono stati pubblicati ben nove trial sul trattamento adiuvante del carcinoma della mammella, che confrontavano tamoxifene con gli inibitori delle aromatasi, e che hanno coinvolto nel complesso circa 44.000 pazienti. Tutti questi trial erano sostanzialmente controllati (direttamente o indirettamente) da tre aziende farmaceutiche e tutti avevano un endpoint surrogato, spesso un endpoint composto, come ‘primary endpoint’ del trial.
Come mostra una metanalisi pubblicata nel 2010 (J Clin Oncol 2010; 28: 509-18), in tutti questi studi risultava sempre un beneficio per gli inibitori delle aromatasi su tutti gli endpoint surrogati (recidiva locale, tumore controlaterale, DFS, tempo alla metastasi) sia nella strategia up-front (5 anni di trattamento) sia nello switch (2 anni di tamoxifene e 3 di un inibitore dell’aromatasi). “Tutto in questi studi sembrava funzionare alla perfezione” sottolinea Perrone. “Disegno degli studi perfetto, metodologia pure, monitoraggio fatto da importanti CRO internazionali, risultati positivi coerenti tra tutti gli studi e generalizzabilità altissima: l’unica cosa che disturbava era il fatto che nell’up-front non risultava evidente il vantaggio in sopravvivenza degli inibitori dell’aromatasi rispetto al tamoxifene, ma a tranquillizzare gli animi era il piccolissimo vantaggio in sopravvivenza che risultava invece nello switch: hazard ratio 0.94 di sopravvivenza con l’up-front e hazard ratio HR 0.79 con lo switch.
“La verità – continua Perrone è che in quegli anni nessuno o pochi riflettevano sulla mancanza di ricerche indipendenti, sull’assenza del tentativo di confrontare i diversi inibitori tra di loro e sul fatto che ognuno di questi farmaci costava 6 euro al giorno contro i 50 centesimi del tamoxifene (certo, quisquilie rispetto al costo dei nuovi farmaci!)”.
Solo nel 2007, un gruppo oncologi napoletani (all’Istituto dei Tumori e nelle due Facoltà di Medicina di Napoli) è stato in grado, grazie al finanziamento dell’AIFA, di avviare lo studio fattoriale multicentrico che confronta i tre inibitori delle aromatasi tra di loro e nelle due strategie. I risultati arriveranno, anche se forse un po’ troppo tardi.
Nel frattempo è stato pubblicato dallo stesso gruppo di ricercatori che fa capo a Francesco Perrone un piccolo studio rivolto a valutare la salute dell’osso nelle donne affette da carcinoma mammario iniziale e trattate con terapia ormonale (Ann Oncol 2012; 23: 2027-2033). Quello che ha stupito i ricercatori è stato scoprire che circa il 50% di donne appartenenti al gruppo che ha assunto il letrozolo presentava livelli di estrogeni circolanti tranquillamente misurabili (quando invece gli inibitori delle aromatasi dovrebbero sopprimerli) e un 20% di queste pazienti addirittura valori al di sopra della soglia del test che garantisce un rischio molto basso di dosaggio falsamente positivo.
Qualche mese prima della pubblicazione di questo studio, un altro gruppo di studiosi viennesi aveva reso noti i risultati di un’analisi secondaria di un trial realizzato in quegli anni, in cui si confrontavano anastrozolo e tamoxifene, riscontrando che le donne sovrappeso o obese (secondo quanto indicato dal Body Mass Index – BMI) presentavano un maggior rischio di recidiva o morte solo se trattate con anastrozolo e non con tamoxifene (J Clin Oncol 2011; 29: 2653-2659). Il BMI è una misura indiretta del tessuto adiposo e il tessuto adiposo è il luogo dove gli estrogeni vengono prodotti nelle donne con ovaie non funzionanti. Sulla base di questi risultati, l’ipotesi che secondo Perrone si potrebbe formulare è che anastrozolo potrebbe dare risultati peggiori rispetto a tamoxifene se usato in pazienti in sovrappeso o obese perchè in queste pazienti gli inibitori delle aromatasi potrebbero non sopprimere adeguatamente gli estrogeni.
In questo caso, l’unico meccanismo di azione ipotizzato per questi farmaci potrebbe non funzionare, la prescrizione potrebbe rivelarsi un placebo o addirittura un danno (a causa della mancata somministrazione di tamoxifene). In base ai risultati dello studio condotto all’Istituto Tumori di Napoli, questo potrebbe accadere a una percentuale di donne compresa tra il 20 e il 50%. “Se fosse vero sostiene Perrone che il 35% delle donne in trattamento con un inibitore delle aromatasi assume in realtà un placebo, questo spiegherebbe perfettamente la differenza dell’HR di sopravvivenza tra le due strategie di up-front e switch”.
Chi è la vittima di questa seconda storia? Ancora una volta la ricerca mancante: non si sa (e non è chiaro se e quando si saprà) se gli inibitori delle aromatasi funzionano solo in un sottogruppo di pazienti. Chi è il responsabile? In questo caso sia le aziende farmaceutiche sia l’accademia, che è stata complice. Chi ci va di mezzo? Se l’ipotesi di Perrone risultasse corretta, la paziente alla quale si sta somministrando un placebo invece che tamoxifene.
Certo, è singolare che queste nuove ipotesi della letteratura emergano solo 15 anni dopo che si è iniziato a lavorare sugli inibitori delle aromatasi e proprio quando i brevetti di questi farmaci sono ormai scaduti. “Si poteva fare meglio?” si è chiesto provocatoriamente Perrone a conclusione del suo intervento. “Probabilmente sì è la risposta e sicuramente in questo anche le Agenzie regolatorie hanno giocato un ruolo non sempre trasparente rispetto alla loro missione”.
Resoconto a cura di Mara Losi.
Trasparenza: lezioni di disegno
Gli studi clinici di fase III di nuovi farmaci oncologici sono studi ben fatti sul piano formale. Tuttavia nascondono una serie di ambiguità che di per sé non alterano la correttezza dello studio né la veridicità dei risultati, ma che sono finalizzate a dimostrare una differenza statisticamente significativa a favore del trattamento sperimentale e, comunque, ad amplificarla. Così alla Riunione Annuale 2013 dell’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane, Paolo Bruzzi ha iniziato la sua relazione che potremmo paragonare ad una perizia anatomopatologica del disegno dei trial clinici randomizzati di ultima generazione sponsorizzati dall’industria in ambito oncologico.
Lo scopo ultimo di questi studi clinici è valutare positivamente gli effetti della terapia sperimentale messa a confronto con la terapia standard per arrivare alla registrazione del nuovo farmaco, preferibilmente nei tempi più brevi. Il disegno degli studi deve soddisfare una serie di criteri al fine di garantire che i risultati differiscano dalla verità solo per effetto del caso (validità interna) e siano replicabili in popolazioni, ambienti e tempi diversi da quelli in cui è stata condotta la sperimentazione clinica (validità esterna). Per quanto concerne la validità interna, i disegni degli trial clinici sponsorizzati dall’industria sono ineccepibili, sono di alta qualità statistica e accettabilità e non si identificano bias nella conduzione. Le anomalie emergono quando si prova a guardare meglio al di là dei criteri valutativi adottati per dimostrare la correttezza e la trasferibilità dei risultati nel mondo reale.
Una prima anomalia, spiega Bruzzi, viene dallo scelta dell’obiettivo primario che deve dimostrare il beneficio del trattamento. Dimostrare la presenza di un beneficio significa rifiutare l’ipotesi nulla secondo la quale i due interventi sanitari confrontati sono di pari efficacia.Tuttavia negli studi oncologici di fase III l’ipotesi nulla è alquanto improbabile perché essenzialmente si sperimentano farmaci che si presuppone abbiano una minima efficacia clinica già dimostrata negli studi preclinici e in quelli di fase II o in trial di altri farmaci con lo stesso meccanismo . Quindi il problema non è tanto dimostrare se c’è una differenza statisticamente significativa (p > 0.005) ma piuttosto valutare se c’è una differenza clinicamente rilevante.
Spesso l’industria adotta dei trucchi per dimostrare una differenza più ampia e nel più breve tempo possibile (cosa non da poco visto che anticipare di sei mesi la registrazione di un farmaco si traduce in un grosso guadagno per l’industria). Il primo trucco è disegnare trial sovradimensionati rispetto alla necessità di dimostrare la presenza di un beneficio clinicamente rilevante: in questo modo, per calcoli esclusivamente statistici, differenze anche di piccole dimensioni risultano significative. Bruzzi porta come esempio i primi tre studi clinici pubblicati degli inibitori dell’aromatasi nel carcinoma della mammella precoce che hanno arruolato rispettivamente 4270, 5187 e 6200 pazienti.
Un secondo trucco è scegliere l’endpoint più efficiente dal punto di vista statistico. Se lo scopo del trattamento vuole essere migliorare la quantità o la qualità della vita, andrebbe scelto come endpoint primario la sopravvivenza globale che è l’unico endpoint in grado di definire realmente l’efficacia del trattamento, oppure il QoL Score che misura la qualità di vita o il numero di anni di vita aggiustati per qualità di vita (Qaly). Spesso invece l’industria adotta endpoint surrogati (anche non validati), quali la sopravvivenza libera da progressione, la sopravvivenza libera dalla malattia, la sopravvivenza libera da recidiva o il tasso di risposta. L’interesse per questi endpoint surrogati è duplice. Il primo è che essi massimizzano le differenze tra due bracci di studio e quindi rendono statisticamente significative le differenze oppure sovradimensionano l’efficacia del trattamento. Il secondo motivo di interesse è che anticipano di molto la risposta, fino a tre, quattro mesi.
Inoltre l’utilizzo degli endpoint surrogati viene rafforzato dal cross over progression. Se infatti ad una analisi intermedia viene osservato precocemente un beneficio del trattamento, per apparenti ragioni umanitarie viene acconsentito il cross over progression, cioè il passaggio dei pazienti del braccio di controllo a quelli del trattamento sperimentale . Ma in questo modo non si potrà mai sapere se il trattamento sperimentale ha un effetto sulla sopravvivenza globale perché tutti i pazienti prima o poi hanno assunto il nuovo trattamento.
Infine, un terzo trucco è l’uso intensivo dell’analisi ad interim che ad una non appropriata analisi statistica dei risultati basata sulla regressione della mediana tendono a produrre una sovrastima della efficacia del trattamento . L’hazard ratio (il rapporto tra l’incidenza dell’endpoint esaminato nei due bracci in diversi momenti dello studio) può essere ingannevole perché non è costante per tutta la durata dello studio: l’effetto positivo del farmaco sperimentale rispetto al controllo può crescere fino a un massimo per poi decrescere fino ad annullarsi. Statisticamente analisi intermedie tenderanno quindi a sovrastimare l’hazard ratio dell’efficacia del trattamento. Tornando ai tre studi clinici sugli inibitori dell’aromatasi nel carcinoma della mammella precoce è singolare che l’analisi intermedia sia stata fatta dopo due anni e mezzo del follow up per un trattamento di cinque anni, che lo studio sia stato interrotto per fare precocemente il cross over dei pazienti del gruppo di controllo. Questo ha comportato che alla valutazione della positività dei risultati sono stati mascherati i dati sulla tossicità e sulla mortalità per il semplice fatto che i pazienti del gruppo di controllo hanno seguito il medesimo trattamento seppure in ritardo del gruppo del farmaco sperimentale.
In sommario possiamo dire che i trial oncologici di ultima generazione sono privi di macroscopici difetti dal punto di vista statistico e metodologico e sono disegnati per massimizzare la probabilità di trovare una differenza significativa e di produrre sovrastime di efficacia del trattamento aumentando le dimensioni dello studio, focalizzandosi sugli endpoint surrogati e/o le analisi ad interim, focalizzandosi sugli effetti precoci in cui è prevedibile che l’effetto sarà massimo. Tutto questo, sottolinea Bruzzi, produce delle sovrastime del beneficio che vengono adeguatamente pubblicizzate ma che forniscono una visione distorta della vera efficacia clinica del trattamento sperimentale. Il problema è che queste anomalie non sono considerate dalle autorità regolatorie e impattano sul processo autorizzativo favorendo la registrazione di nuove terapie dai benefici limitati e dagli alti costi.
Le soluzioni? Bruzzi concorda con Fiona Godlee che la soluzione migliore sia puntare a trial indipendenti e a una più forte capacità di negoziare tra le agenzie regolatorie, la comunità scientifica e le aziende farmaceutiche. Inoltre andrebbero corretti , statistica già in sede di programmazione dello studio, i criteri di analisi alzando il “livello dell’asticella” di efficacia richiesta per l’approvazione di un farmaco oltre la quale si concretizzi un vantaggio concreto, tangibile per il paziente.
Resoconto a cura di Laura Tonon.
Riferimenti bibliografici
Baum M, Budzar AU, Cuzick J, et al. Anastrozole alone or in combination with tamoxifen versus tamoxifen alone for adjuvant treatment of postmenopausal women with early breast cancer: first results of the ATAC randomised trial. Lancet 2002; 359: 2131-9.
Goss PE, Ingle JN, Martino S, et al. A Randomized Trial of Letrozole in Postmenopausal Women after Five Years of Tamoxifen Therapy for Early-Stage Breast Cancer. N Engl J Med 2003; 349: 1793-802.
Coombes RC, Hall E, Gibson LJ, et al. A Randomized Trial of Exemestane after two to three years of Tamoxifen therapy in postmenopausal women with primary Breast Cancer. N Engl J Med 2004; 11; 350: 1081-92.
La ricerca tra condivisione e protezione della paternità del dato
In tema di condivisione dei dati della ricerca, Giuseppe Traversa distingue da subito tra questioni inoppugnabili e indiscutibili, come l’obiettivo della necessità di trasparenza, e questioni su cui invece vale la pena approfondire ancora la discussione, come per esempio il rapporto tra obiettivi e mezzi, in particolare i mezzi specifici attraverso i quali si vogliono perseguire gli obiettivi.
La premessa è lapalissiana: “maggiore trasparenza è sempre meglio che minore trasparenza”. Nella ricerca scientifica, i risultati attesi di una maggiore trasparenza dei dati sono:
- evitare il bias di pubblicazione,
- mettere in evidenza (e correggere) alcuni errori,
- ridurre i bias dei conflitti di interesse,
- e (in alcuni casi) mettere in evidenza dei falsi o delle condotte scorrette.
L’aspetto essenziale della questione, prosegue Traversa – su cui in effetti non dovrebbe più esserci discussione – è “pubblicare tutto”, come d’altronde riporta la Dichiarazione di Helsinki laddove sottolinea che ricercatori, autori, sponsor, editori hanno l’obbligo etico di pubblicare e diffondere tutti i dati della ricerca, in modo completo e accurato e quindi anche pubblicare i risultati negativi.
Il problema allora si pone sulla modalità di pubblicazione dei dati e sull’accesso ai dati. E l’accesso ai dati può essere distinto tra:
- quello previsto dalle norme, dal regolatorio (che non è mai problematico);
- quello di tipo non problematico e
- un accesso ai dati che può invece essere problematico.
E’ previsto infatti che i Comitati etici e le agenzie regolatorie possano accedere a tutti i dati per ripercorrere lo studio e la ricerca e rianalizzare i dati stessi. Accesso questo che non crea alcun problema. Così come non crea problema il fatto che le riviste scientifiche chiedano e ottengano l’accesso ai dati e, in presenza di risorse sufficienti, chiedano anche la rianalisi dei dati. Laddove quindi si abbia collaborazione tra principal investigator che ha condotto e completato lo studio e ricercatore (singoli individui, associazioni, società scientifiche) l’accesso ai dati non è mai problematico, rispettandosi proprio la natura fondamentale delle attività di ricerca che è una natura appunto collaborativa.
L’accesso ai dati risulta al contrario problematico quando è richiesto senza il consenso del ricercatore che ha condotto lo studio, e quindi in assenza di collaborazione.
Dietro quest’ultimo punto sembra esserci l’idea, verso la quale Traversa esprime tutta la sua perplessità e il suo scetticismo, che l’accesso aggiuntivo ai dati di un singolo ricercatore sia in
grado di “scoprire la verità”. Quando, invece, la presenza di dati discrepanti è parte integrante della ricerca scientifica, ricerca condotta anche perfettamente in buona fede da gruppi di qualità; e la rianalisi dei dati può inoltre portare ad una accuratezza minore rispetto all’originale.
Traversa, a questo proposito, ripercorre velocemente due casi emblematici della letteratura scientifica: quello dello studio di Berry et al. sugli effetti dello screening e della terapia adiuvante sulla mortalità per tumore della mammella, pubblicato nel 2005 sul NEJM; e la metanalisi di Kemmeren et al. sui contraccettivi orali di terza generazione e il rischio di trombosi venosa profonda (BMJ, 2001). La conclusione per entrambi i casi è che se anche qualcuno avesse rianalizzato i dati non si sarebbero risolte le questioni di discrepanza dei risultati e di bias emerse negli studi. Molto spesso, dichiara Traversa, l’unico modo per risolvere alcune incertezze o ottenere ulteriori dati è quello di effettuare nuovi studi, non di rianalizzare i dati di un unico database disponibile.
Traversa infine si domanda se concentrandosi solo su alcuni aspetti dell’accesso o meno ai dati, non si perda di vista una realtà macroscopica: in Italia, come in altri paesi europei, non si accede alla gran parte dei dati pubblici. L’esperienza dell’FDA, per esempio, è straordinaria, perché consente di accedere ai dati della segnalazione spontanea, ma in Italia non si accede normalmente né ai dati delle dimissioni ospedaliere, né a quelli del monitoraggio delle prescrizioni. L’Istituto Superiore di Sanità – per esempio – non ha più l’accesso ai dati delle prescrizioni, pur avendo curato per più di dieci anni la pubblicazione dei dati OSMED.
In conclusione, sostiene Traversa, quando si hanno dei dubbi su studi o dati questi vanno sollevati con forza in tutte le sedi preposte, a cominciare dalle riviste scientifiche. Ma chi deve risolvere tali dubbi non sono i singoli, bensì le Istituzioni che hanno il compito di verificare, controllare e richiedere nuovi dati se necessari. In ambito di farmaci, sono in particolare le agenzie regolatorie che di fronte ad un qualsiasi dubbio sollevato da parte di ricercatori o riviste scientifiche hanno per prime il dovere di riprendere in mano i dati ed entrare nel merito. Dovere che, come affermava prima, Traversa attribuisce anche alle riviste scientifiche.
Le conclusioni di Traversa vanno all’essenziale: la trasparenza è fondamentale; i ricercatori dovrebbero essere liberi di analizzare e pubblicare e non pubblicare tutti i dati disponibili è assolutamente non etico; la collaborazione è importante e necessaria: l’open access ai dati non è un’alternativa alla collaborazione; la rianalisi dei dati senza l’accordo del principal investigator dovrebbe essere ad appannaggio esclusivo delle agenzie regolatorie.
Resoconto a cura di Manuela Baroncini.
Medici e ricercatori: cosa imparare dal social web?
Roma
Le nuove tecnologie possono essere utili per cambiare l’equilibrio delle relazioni che legano tra loro medici e pazienti. Partiamo dalla constatazione che Internet ha amplificato moltissimo un aspetto della natura umana che possiamo per comodità definire come “naturale attitudine alla condivisione”. Le persone amano condividere esperienze, pensieri, opinioni, sentimenti e i social media basano la loro esistenza e il loro successo su questa attitudine – trasversale ed universale – che accomuna uomini e donne indipendentemente dall’età, dal genere, dal livello sociale, culturale, economico.
La passione per la condivisione unisce naturalmente anche i pazienti, che sui social network si scambiano informazioni e pareri. Attraverso piattaforme studiate ad hoc, i medici possono venire a conoscenza di quanto succede ai pazienti con l’obiettivo di comprenderne meglio problemi, esigenze e aspettative. Ma questo aspetto della questione – che pure potrebbe fare la differenza rispetto alla situazione comunicativa frontale di stampo tradizionale – non è il più interessante.
Quello che è veramente innovativo è che sfruttando la naturale tendenza all’omofilia che caratterizza i pazienti che frequentano i social network, i medici hanno la straordinaria opportunità di poter incidere sui comportamenti collettivi della community utilizzando adeguatamente le informazioni che vengono messe in circolazione e scambiate.
Questo approccio di tipo epidemiologico ai social media, basato sulla tendenza dei pazienti alla condivisione e all’aggregazione, costituisce a tutti gli effetti una nuova frontiera del rapporto medico-paziente. Stabilisce nuovi criteri di comunicazione e apre nuove strade alla ricerca e alla prevenzione.
Resoconto a cura di Erica Sorelli.
L’iceberg dei dati sommersi: quali problemi per i ricercatori e i decisori?
La prospettiva proposta da Tom Jefferson sul tema della ricerca trasparente in occasione della riunione annuale 2013 dell’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane è quella di un revisore Cochrane. L’obiettivo è di riflettere sul futuro delle revisioni sistematiche basate su dati di natura regolatoria e sulle possibili implicazioni che questo cambiamento del paradigma della ricerca dell’evidenza comporta.
Perché è necessario questo cambiamento di paradigma?
Perché fare una ricerca più o meno accurata ed esaustiva partendo solo dai dati pubblicati porterebbe sempre agli stessi risultati, tanta è la pervasività dei messaggi commerciali. L’aspetto fondamentale da considerare è quello del reporting bias (di cui il forse più noto publication bias costituisce solo un aspetto): quello che i revisori ‘vedono’ è solo una piccola parte rispetto a quello che ‘non vedono’. Quello che non vedono sono le migliaia di pagine che compongono il Clinical study report (CSR), del quale fanno parte anche le cartelle cliniche, i memorandum, la corrispondenza, i documenti organizzativi, e soprattutto i dati individuali di tutti i pazienti arruolati nello studio (IPD): informazioni preziosissime alle quali hanno accesso solo i regolatori e in certi casi solo i ricercatori delle aziende farmaceutiche. Queste migliaia di pagine di informazioni devono necessariamente essere sottoposte a un grande lavoro di compressione per poter essere pubblicate nelle 8-16 pagine di un articolo di una rivista scientifica: evitare il bias è quindi molto difficile soprattutto quando le decisioni su cosa pubblicare o no sono invisibili.
Che livello di dettaglio si perde senza accesso al CSR?
Per rispondere con un esempio pratico, Jefferson si rifà al trial di fase 4 con Tamiflu eseguito su volontari, che ha un CSR di 8545 pagine e una pubblicazione – avvenuta 10 anni dopo la conclusione del trial – di 7 pagine sul Journal of Antimicrobial Chemotherapy. Alle pagine 422 e 423 del CSR si trovano i certificati di analisi che riportano tutte le caratteristiche delle capsule che contengono il principio attivo e il placebo utilizzate nel trial. Cosa si scopre? Che quelle capsule, considerate nella pubblicazione completamente uguali e confrontabili, in realtà non lo erano perché le capsule del placebo avevano un colore diverso rispetto a quelle del principio attivo. La possibilità di accedere al CSR ha quindi permesso di scoprire che la pubblicazione di quel trial presentava delle informazioni che non corrispondevano al CSR e che all’interno dello stesso CSR c’era una descrizione inaccurata del placebo e non coerente con i certificati di analisi.
Cosa comporta fare le revisioni Cochrane utilizzando solo il materiale regolatorio?
Sicuramente uno sforzo enorme da parte dei ricercatori Cochrane. Solo per ricostruire il programma di trial del Tamiflu e del Relenza un solo ricercatore (ma non è pensabile utilizzare un solo ricercatore perché il margine di errore sarebbe troppo alto) impiegherebbe 6 mesi. Da questi sforzi è nato però l’aggiornamento di una revisione Cochrane sugli inibitori della neuraminidasi iniziata nel 1998, anno di pubblicazione del primo protocollo, che è la prima revisione Cochrane esclusivamente basata su informazioni regolatorie. A breve ne sarà pubblicata anche la versione integrale, basata su 77 trial o studi sul Tamiflu e 30 studi sul Relenza, che manderà definitivamente in pensione la revisione Cochrane sugli inibitori della neuraminidasi pubblicata nel 2006, da considerarsi ormai inaffidabile perché aveva incluso una metanalisi con 10 trial, di cui ben 8 non pubblicati.
La strada appena intrapresa avrà sicuramente un forte impatto sulla Cochrane Library, dove potremmo avere una eterogeneità di metodi e di basi di evidenza da una revisione all’altra, ma il vantaggio di queste nuove revisioni è di offrire un prodotto più affidabile ed etico, grazie al maggiore livello di dettaglio garantito dalla possibilità di accedere ai dati del CSR, che consente anche di scoprire che forse uno studio in doppio cieco era in realtà solo cieco o non era cieco affatto (come ha dimostrato il caso Tamiflu).
Resoconto a cura di Mara Losi.
Riferimenti
Jefferson T, Jones MA, Doshi P, Del Mar CB, Heneghan CJ, Hama R, et al. Neuraminidase inhibitors for preventing and treating influenza in healthy adults and children. Cochrane Database of Systematic Reviews 2012; (1): CD008965.
Lo studio controllato randomizzato come atto di authorship
L’intervento dello psichiatra e psicofarmacologo inglese David Healy – autore, tra l’altro, di Pharmageddon, libro che denuncia il condizionamento della ricerca farmaceutica da parte dell’industria – è stato probabilmente quello che ha maggiormente fatto discutere.
Nella sua relazione, ha illustrato come gli studi controllati randomizzati (RCT) siano stati trasformati – da gold standard della ricerca clinica – in uno strumento utile a nascondere i fatti e a mostrare solo quel che alle aziende sponsor conviene far credere a medici, ai pazienti ed agli enti regolatori.
Ecco un assaggio delle provocatorie affermazioni di David:
- Tutti gli RCT sono dannosi e solo alcuni possono anche produrre dei benefici
- Gli RCT contribuiscono ad alimentare la non-conoscenza sull’efficacia delle medicine e soprattutto sulla loro sicurezza d’uso
- Gli RCT sponsorizzati dalle aziende promuovono farmaci peggiori (Healy utilizza il termine “weak”, a indicare la maggiore “debolezza” dei nuovi farmaci rispetto a quelli comunemente utilizzati)
- Gli RCT sono lo strumento più idoneo per nascondere gli eventi avversi
- La valutazione della significatività statistica dei risultati degli studi è un aspetto talmente delicato dal dover essere considerata una questione di salute pubblica
- Le linee guida per il trattamento delle malattie sono un danno per l’assistenza sanitaria e per l’innovazione delle strategie di cura.
Per continuare ad approfondire gli spunti offerti dall’intensa relazione di Healy abbiamo visitato il suo sito http://davidhealy.org/. Sul suo blog, a proposito degli studi controllati randomizzati, Healy ha scritto: “Gli RCT possono essere molto utili per smentire chi afferma che un farmaco funziona. (…) Ma gli RCT possono anche essere inutili: in molte condizioni non producono risultati significativi. Per esempio, quando problemi in apparenza simili possono essere provocati sia dalla malattia sia dal farmaco, come la suicidalità durante il trattamento con antidepressivi: in questo caso, gli RCT possono dimostrare, in modo perverso, che i farmaci, che chiaramente causano un problema, apparentemente non lo provocano. Nell’ambito della salute mentale è discutibile (opinabile) che gli RCT possano dimostrare che ci sia qualcosa che ‘funzioni’ “.
In un post del settembre 2012 Healy sostiene che se lo scopo dei trial fosse stato davvero solo la valutazione dei medicinali in vista della loro approvazione, i farmaci inutili non sarebbero stati immessi sul mercato e ciò avrebbe contribuito alla sicurezza dei pazienti; se così fosse stato, gli RCT non sarebbero diventati uno strumento per vendere farmaci, nascondere effetti collaterali e condizionare la pratica clinica.
Il panorama attuale è diverso: anche quando la maggior parte dei trial non riesce a dimostrare che un farmaco produce dei benefici, basta che pochi studi suggeriscano alcuni esiti positivi che il trattamento viene immesso nel mercato. Per favorire questi outcome si ricorre a strategie ormai abbastanza note:
- quando si conducono studi con moltissimi partecipanti, è probabile che si riesca a dimostrare qualche beneficio, anche se irrilevante;
- gli RCT sono condotti principalmente dalle aziende farmaceutiche con l’intenzione di produrre conoscenze al servizio di obiettivi specifici; se nel corso dello studio emergono conoscenze poco convenienti è molto probabile che siano ignorate.
La posizione di Healy, certamente radicale, non è troppo distante da quella di chi, come Des Spence in un recente intervento sul BMJ, ha dichiarato “infranta” la medicina basata sulle prove dall’avere l’industria farmaceutica ormai corrotto i suoi strumenti elettivi: Healy riconosce che gli RCT potrebbero essere un ottimo metodo, così come afferma l’EBM: nella pratica, tuttavia, sono diventati lo strumento ideale per nascondere gli eventi avversi e non per dimostrare l’efficacia dei farmaci.
Gli RCT come un’illusione ottica? Un gioco dove spesso le carte sono truccate?
Per approfondire:
davidhealy.org: il sito di David Healy con il suo blog, l’elenco delle pubblicazioni, i link alle interviste e alle recensioni dei suoi libri.
rxisk.org: il sito creato da David Healy per “per pazienti, medici e farmacisti dove fare ricerca e riportare gli effetti collaterali dei farmaci”.
L’articolo di Des Spence. Evidence-based medicine is broken. BMJ2014; 348 doi.
Resoconto a cura di Arabella Festa.
Restoring invisible and abandoned Trials (RIAT)
Peter Doshi, da poco Associate editor al BMJ, con l’incarico di seguire il giornalismo di inchiesta, ha presentato alla riunione annuale dell’Associazione Alessando Liberati, Network italiano Cochrane (OPEN, Napoli, 13 dicembre 2013) l’iniziativa RIAT, Restoring Invisible and Abandoned Trials.
Una iniziativa che è l’ultima tappa di un percorso iniziato almeno dal 1990 con l’articolo di Iain Chalmers sul JAMA Underreporting Research Is Scientific Misconduct. La consapevolezza della necessità che tutti i risultati di tutti i trial clinici siano accessibili a tutti è finalmente uscita dai recinti della discussione accademica per arrivare, per esempio, sulle colonne del New York Times con l’articolo Breaking the seal of drug research.
Essenzialmente la richiesta di dati, spiega Doshi, risponde a due problemi fondamentali:
- la mancanza dei dati stessi, dunque invisibilità,
- presentazione distorta dei trial, sulla base dei soli dati pubblicati.
Doshi ha invitato il pubblico a soffermarsi sulle dichiarazioni e domande indirizzate alla comunità scientifica dalla direttrice del BMJ, Fiona Godlee:
- perché i dati degli studi clinici non sono normalmente disponibili per analisi indipendenti dopo che un ente regolatorio ha preso una decisione?
- Come è stato possibile consentire alle aziende farmaceutiche di valutare i loro propri prodotti e tenere segrete grandi e sconosciute quantità di dati perfino agli enti regolatori?
- È necessario incoraggiare in futuro la pubblicazione non distorta dei risultati dei trial clinici, trattando le distorsioni deliberate nel riportare i dati come una forma di frode scientifica.
- I dati individuali dei pazienti di tutti gli studi sui farmaci dovrebbero essere facilmente accessibili per una verifica scientifica.
L’iniziativa RIAT si articola in due fasi.
- Nella prima, si individua uno studio “invisibile” o “distorto”, si ottiene un report dalle agenzie regolatorie, si scrive all’azienda sponsor e si chiede di rendere trasparenti i dati o di eliminare le distorsioni, chiedendo di rispondere entro 30 giorni. Se l’azienda risponde di sì, ha 1 anno di tempo.
- Se non si ottiene risposta, parte la seconda fase: inizia la caccia ai dati, per portarli alla luce e pubblicarli su una rivista “RIAT friendly” secondo le indicazioni riportate nell’articolo “Restoring invisible and abandoned trials: a call for people to publish the findings”.
“Con i dati”, ha detto Doshi, “possiamo correggere quanto è stato pubblicato. Io, voi, tutti, possiamo diventare autori che ripristinano la correttezza dell’informazione. Un tale autore può dire ‘abbiamo i dati completi di questo studio’. Se chi lo ha riportato non lo corregge o non lo ritira, lo faremo noi. Non è stato pubblicato? Lo faremo noi!”
Le riviste scientifiche continueranno ad avere un ruolo centrale nella divulgazione dei risultati degli studi clinici, perché hanno le competenze e perché ci sarà sempre bisogno di una sintesi che il medico medio possa consultare.
Grazie all’iniziativa RIAT, grazie alla revisione degli studi clinici sulla base dei dati completi, avremo anche una EBM migliore: il suo fondamento infatti sono le evidenze, che ora sono in parte condizionate dal marketing e dalla presentazione distorta dei dati. Si tratta di una impresa che, infine, potrebbe essere determinante per dare una nuova credibilità alla ricerca scientifica.
Resoconto a cura di Arabella Festa.
Fonti
- Tom Jefferson: È trasparente, dunque, fa potenzialmente bene alla salute. Attenti alle bufale, 13 giugno 2013.
- Doshi P, Dickersin K, Healy D, Vedula SS, Jefferson T. Restoring invisible and abandoned trials: a call for people to publish the findings. BMJ 2013; 13; 346: f2865
- Godlee F. Clinical trial data for all drugs in current use. BMJ 2012; 345: e7304.
- Godlee F. We want raw data, now. BMJ 2009; 339: b5405.
Revisioni sponsorizzate e accessibilità dei dati: la nuova strategia Cochrane
Nel 2003 il British Medical Journal, con un articolo di Ray Moynihan, definisce la prima policy sui finanziamenti delle ricerche a fini commerciali, che in sostanza – sottolinea David Tovey, editor in chief della Cochrane Library, in apertura del suo intervento alla Riunione annuale 2013 dell’Associazione Alessandro Liberati – Network italiano Cochrane – è quella tuttora di riferimento. La dichiarazione di eventuali conflitti d’interessi, seppur necessaria, si dimostra tuttavia strumento insufficiente a garantire la trasparenza delle review. In dieci anni di dibattito hanno preso corpo vari progetti per una maggior trasparenza in ambito sanitario, come DECIDE, e la Cochrane Collaboration ha elaborato una nuova policy sulle sponsorship commerciali, rivolta ad autori e revisori, ufficialmente in vigore da gennaio 2014.
In particolare la Cochrane, che da sempre collabora con gli utenti, s’impegna a mettere a disposizione il registro completo dei protocolli di revisione, a partire dalla fase di registrazione del titolo sino alla pubblicazione della review. Viene dunque istituito un database di report dettagliati delle ricerche, in cui siano esplicitati gli eventuali contributi degli autori.
Come rintracciare i bias nelle pubblicazioni? Senz’altro richiedendo i protocolli dei trial ed esaminando a fondo i registri, quindi verificando la riproducibilità dei dati. Poi, come suggerisce Ben Goldacre in Bad Pharma, si dovrebbero rendere noti i nomi degli eventuali responsabili di “distorsioni” e pubblicarne i contatti nella review stessa. Una peer review completamente open è senz’altro garanzia di trasparenza: risposte e commenti rivestono un ruolo di rilievo e devono pertanto essere pubblicati.
E dal punto di vista degli utenti della Cochrane? Tovey ribadisce l’importanza di fornire loro un’informazione accessibile, comprensibile e affidabile. A partire da febbraio 2014 le pubblicazioni della Cochrane saranno completamente open access, secondo il modello “green” oppure “gold” (o author’s pay).
Chi deve decidere della propria salute deve poter accedere facilmente ai risultati delle ricerche, come ha sempre sostenuto Alessandro Liberati. Questo è l’intento dei “Plain Language Summaries”, che consentiranno di effettuare ricerche secondo modelli flessibili, adatti all’esigenza del singolo e in più lingue (da un’analisi degli indirizzi IP di chi effettua le ricerche si evince che il 30% è di lingua spagnola, francese o tedesca). I Cochrane Summaries sono stati elaborati negli ultimi due anni secondo un registro e un linguaggio semplici, l’approccio GRADE per la valutazione qualitativa delle evidenze, e prevedono l’utilizzo di intestazioni sintetiche che evidenziano il contenuto in maniera chiara, senza ambiguità né omissioni.
Paul Glasziou ha sottolineato la lacunosità delle descrizioni dei metodi applicati nei trial e nelle revisioni. Ci troviamo dinanzi a due grandi sfide: quella della campagna AllTrials per la completa trasparenza dei dati delle ricerche, e quella per l’individuazione di un modello di review più appropriato ed efficace. Per far fronte alla prima è necessario acquisire ancora conoscenze ed esperienze; per la seconda probabilmente è opportuno considerare un ventaglio di tipologie di review (veloce, convenzionale, IPD) che adattino il processo editoriale (che in media dura 3 anni) al singolo contesto. Secondo il famoso blogger John Brassey, per una review bastano giorni, ore, mentre secondo lo stesso Glasziou non servirebbero più di 2-3 settimane.
Le revisioni sistematiche si sono arricchite in complessità e nuove domande, e costituiscono un terreno molto competitivo. Come ridurre i task, e quindi semplificare il processo di review? Senza dubbio conducendo revisioni sulla qualità, sull’accuratezza dei test diagnostici, nonché delle meta-analisi della rete Cochrane.
La Cochrane Collaboration intende realizzare due importanti obiettivi entro il 2020: produrre evidenze e renderle pienamente accessibili. E intende farlo attraverso un processo attivo di definizione delle priorità, coinvolgendo cioè direttamente le persone e indagandone bisogni e perplessità. La strategia – ribadisce Tovey chiudendo il suo intervento – è rispondere al meglio alle necessità degli utenti, e, quindi, a quelle degli sponsor, con revisioni tempestive e aggiornate, di qualità, scritte con un linguaggio di facile comprensione e presentate (o tradotte) in più lingue, garantendo la diffusione, la trasparenza e l’accessibilità dell’informazione. Con l’auspicio che le aziende, in futuro, si facciano promotrici di studi clinici sull’efficacia piuttosto che sugli effetti delle terapie.
Bibliografia
Moynihan R. Cochrane at crossroads over drug company sponsorship. BMJ2003; 327: 924
Goldacre B. Bad Pharma: How Drug Companies Mislead Doctors and Harm Patients, 430 pp, 2012, Fourth Estate (UK)
Resoconto a cura di Livia Costa.
Da Iain Chalmers, Fiona Godlee, Francesco Perrone, Paolo Bruzzi, Giuseppe Traversa, Alberto Tozzi, Tom Jefferson, David Healy, Peter Doshi e David Tovey è giunto un messaggio chiaro: non solo è eticamente inaccettabile che i dati della ricerca non siano resi pubblici, ma è necessario un cambiamento di rotta. Troppi studi non valgono nulla: serve soltanto la ricerca utile alle persone sane e malate.